Lo chiamerò G perché possa restare anonimo. Mi ha raccontato la sua storia davanti ad una lattina di coca cola (durante il ramadan in Tunisia non è facile trovare delle birre). Non credo di tradire la sua fiducia scrivendo di lui. In cambio mi ha solo chiesto di fornirgli una versione tradotta di quanto dirò. A me stesso chiedo solo di saper trovare parole adeguate e il più possibile delicate.
G ha un sogno, il sogno newyorkese lo ha chiamato. Spera un giorno di poter raggiungere quella città ed essere se stesso. Finora non è mai uscito dalla Tunisia. Ma ha comunque cercato di essere se stesso. E in una certa misura credo ci sia riuscito. Anzi, sono sicuro ci sia riuscito.
I genitori di G sanno e non sanno che loro figlio è gay. Sembra assurdo, ma la questione è proprio in questi termini: sanno e rimuovono. Sanno perché i fatti che hanno coinvolto G quando aveva appena diciotto anni non potevano lasciare dubbi neppure nel genitore più ingenuo. Non sanno perché la questione andava risolta alla maniera loro. Non lo sei più, perché noi ti diciamo di non esserlo.
G aveva conosciuto un ragazzo, più grande di lui di alcuni anni. Mi ha confessato di essersi innamorato solo due volte nella vita. Questa era la prima di quelle volte, ed era stato per la persona sbagliata. Si erano frequentati a lungo. Per poterlo fare G aveva dovuto mentire. Ci tiene a specificare che nella sua vita non aveva mai dovuto mentire e che lui non mente mai. Ma la Tunisia gli impone il segreto, gli impone la colpa, e di fronte a quello che G ritiene l’amore della sua vita cosa volete che sia una bugia?
Le cose vanno bene per un po’. Poi il ragazzo si dimostra diverso dall’idea che G aveva dell’amore. Diventa geloso, possessivo. Lo picchia. Spesso. Una volta arriva persino a ferirlo con un coltello. L’amore può avere un volto meschino. Gli dico: forse non ti ha mai veramente amato. Forse. Sorride e annuisce. Come a dire che a questo c’è arrivato da solo, ma dopo. Allora non era così semplice capirlo. G adora Titanic. Piange sempre quando Jack si rifiuta di salire su quel brandello di legno che sorregge Rose e che alla fine le salverà la vita. Piange perché crede che l’amore può anche essere negato, ma non può essere altro che incondizionato.
I genitori di G vanno dalla polizia. La coltellata non è un pugno. Lascia un segno più profondo. Le menzogne non bastano più. I poliziotti interrogano G ma ottengono poco. È il padre a raccontare tutto. A dire alla polizia anche di quell’amore proibito che il figlio ha osato provare. A quel punto un poliziotto mette le cose in chiaro: tuo padre ha raccontato tutto. Non devi mentire. Puoi dirci ogni cosa. E anche se non ce lo dicessi noi lo sapremmo lo stesso perché faremo il test.
G subisce l’umiliazione del test. Comincia a capire che la polizia non ha intenzione di proteggerlo. Il ragazzo che amava è un militare. Questa complicazione lo mette doppiamente dalla parte del torto. Intorno a lui inizia a crearsi una nebbia. La nebbia omertosa della legge. Sul banco degli imputati, per dirla come nei film, c’è finito solo lui: la vittima. Potrebbe rischiare un anno di carcere per avere amato la persona sbagliata, di un amore sbagliato, nel paese sbagliato.
G mi ha confidato di non avere alcuna speranza che le cose cambino nel suo paese. Un paese ipocrita e contraddittorio. Ho ribattuto che a seguito dei fatti di Orlando molti islamici hanno indossato bandiere arcobaleno ed espresso parole di cordoglio. Mi ha guardato con occhi gentili e comprensivi. Ti sei mai chiesto chi fossero quelle persone? Sono quelli che hanno studiato all’estero o che all’estero sono rimasti per un motivo o per un altro.
Gli ho detto. Ma qui ci sei tu.
E lui ha sorriso. Con gli occhi gentili di un sogno newyorkese. Con gli occhi gentili di chi fa rivoluzioni timide e quotidiane. Inconsapevoli. Con gli occhi gentili di un ragazzo cui nessuno potrà togliere il talento di amare.
di Sebastiano Luca Tata