Un incontro

Lo chiamerò G perché possa restare anonimo. Mi ha raccontato la sua storia davanti ad una lattina di coca cola (durante il ramadan in Tunisia non è facile trovare delle birre). Non credo di tradire la sua fiducia scrivendo di lui. In cambio mi ha solo chiesto di fornirgli una versione tradotta di quanto dirò. A me stesso chiedo solo di saper trovare parole adeguate e il più possibile delicate.

G ha un sogno, il sogno newyorkese lo ha chiamato. Spera un giorno di poter raggiungere quella città ed essere se stesso. Finora non è mai uscito dalla Tunisia. Ma ha comunque cercato di essere se stesso. E in una certa misura credo ci sia riuscito. Anzi, sono sicuro ci sia riuscito.

I genitori di G sanno e non sanno che loro figlio è gay. Sembra assurdo, ma la questione è proprio in questi termini: sanno e rimuovono. Sanno perché i fatti che hanno coinvolto G quando aveva appena diciotto anni non potevano lasciare dubbi neppure nel genitore più ingenuo. Non sanno perché la questione andava risolta alla maniera loro. Non lo sei più, perché noi ti diciamo di non esserlo.

G aveva conosciuto un ragazzo, più grande di lui di alcuni anni. Mi ha confessato di essersi innamorato solo due volte nella vita. Questa era la prima di quelle volte, ed era stato per la persona sbagliata. Si erano frequentati a lungo. Per poterlo fare G aveva dovuto mentire. Ci tiene a specificare che nella sua vita non aveva mai dovuto mentire e che lui non mente mai. Ma la Tunisia gli impone il segreto, gli impone la colpa, e di fronte a quello che G ritiene l’amore della sua vita cosa volete che sia una bugia?

Le cose vanno bene per un po’. Poi il ragazzo si dimostra diverso dall’idea che G aveva dell’amore. Diventa geloso, possessivo. Lo picchia. Spesso. Una volta arriva persino a ferirlo con un coltello. L’amore può avere un volto meschino. Gli dico: forse non ti ha mai veramente amato. Forse. Sorride e annuisce. Come a dire che a questo c’è arrivato da solo, ma dopo. Allora non era così semplice capirlo. G adora Titanic. Piange sempre quando Jack si rifiuta di salire su quel brandello di legno che sorregge Rose e che alla fine le salverà la vita. Piange perché crede che l’amore può anche essere negato, ma non può essere altro che incondizionato.

I genitori di G vanno dalla polizia. La coltellata non è un pugno. Lascia un segno più profondo. Le menzogne non bastano più. I poliziotti interrogano G ma ottengono poco. È il padre a raccontare tutto. A dire alla polizia anche di quell’amore proibito che il figlio ha osato provare. A quel punto un poliziotto mette le cose in chiaro: tuo padre ha raccontato tutto. Non devi mentire. Puoi dirci ogni cosa. E anche se non ce lo dicessi noi lo sapremmo lo stesso perché faremo il test.

G subisce l’umiliazione del test. Comincia a capire che la polizia non ha intenzione di proteggerlo. Il ragazzo che amava è un militare. Questa complicazione lo mette doppiamente dalla parte del torto. Intorno a lui inizia a crearsi una nebbia. La nebbia omertosa della legge. Sul banco degli imputati, per dirla come nei film, c’è finito solo lui: la vittima. Potrebbe rischiare un anno di carcere per avere amato la persona sbagliata, di un amore sbagliato, nel paese sbagliato.

G mi ha confidato di non avere alcuna speranza che le cose cambino nel suo paese. Un paese ipocrita e contraddittorio. Ho ribattuto che a seguito dei fatti di Orlando molti islamici hanno indossato bandiere arcobaleno ed espresso parole di cordoglio. Mi ha guardato con occhi gentili e comprensivi. Ti sei mai chiesto chi fossero quelle persone? Sono quelli che hanno studiato all’estero o che all’estero sono rimasti per un motivo o per un altro.

Gli ho detto. Ma qui ci sei tu.

E lui ha sorriso. Con gli occhi gentili di un sogno newyorkese. Con gli occhi gentili di chi fa rivoluzioni timide e quotidiane. Inconsapevoli. Con gli occhi gentili di un ragazzo cui nessuno potrà togliere il talento di amare.

 

di Sebastiano Luca Tata

Un punto di vista su omofobia, Cirinnà e violenze quotidiane

Forse la mia è un’utopia o una troppo ingenua visione della realtà. Ho sempre pensato che gli uomini appartengano tutti alla medesima catena sociale (scomodiamo Leopardi) e che perciò, quando si parla di diritti, non ci si riferisca a questo o a quel paese, a questa o a quella religione, a questo o a quel partito, ma all’intera umanità, transreligiosa, transpartitica, transnazionale. Una social catena, appunto.

Penso, dunque, che fatti accaduti in Tunisia, dall’altro lato del Mediterraneo, abbiano a che fare con noi, e interferiscano e interagiscano con le nostre vite, tanto quanto le decisioni prese dentro casa nostra. Questo, è bene ricordarlo, non solamente quando esplodono bombe o si esporta terrorismo.

Ma qui non si parla di attentatori suicidi, bensì di diritti umani, la cui violazione raramente occupa le prime pagine dei giornali. Eppure la partita della civiltà, che tanto invocano nei salotti radical-chic della tv, si vince proprio su questi temi che sono, a parole lo sappiamo bene, universali.

A Kairouan alcuni ragazzi vengono arrestati lo scorso Dicembre perché il custode dell’appartamento dove abitano li trova “strani”. A quanto pare in un paese dove l’omosessualità è un reato essere “strani” è abbastanza perché le forze dell’ordine si allertino e prendano provvedimenti. Seguono l’arresto, le violenze e le torture, non solo psicologiche. Un ragazzo “strano” e i suoi amici “strani” non valgono abbastanza pubblico per le “arene” televisive o per le morali gramelliniane. In Italia si legge poco di loro. Si discute poco. Del resto la differenza la si faceva già con gli attentati a sfondo religioso: ci sono morti di serie A e morti di serie B da noi; perché non torturati di serie A e torturati di serie B?

La social catena mostra delle falle. Ma la morsa di un’altra catena, quella dell’oppressione, del razzismo, dell’odio omofobico, quella pare stringere con fatale intendimento e gode di ottima salute. E di catena si tratta, pensateci bene. Rifletteteci anche quando vi godete la discussione televisiva sui diritti degli “altri”, quando invocate le famiglie disconoscendo l’amore di quelle diverse dalle vostre, quando vi preparate a sabotare, a non votare, criticare il Cirinnà, quando stabilite aprioristicamente che l’amore che date voi ai vostri figli è migliore e più sano di quello che darebbero altri. In quell’affanno ad avere fiato e opinione su questioni che non avete nemmeno lontanamente sentito sulla pelle, quando parlate di oppressione senza sapere cosa significhi davvero sentirsi oppressi, ricordatevi che siete complici di quei torturatori tunisini come degli oppressori omofobi di ogni angolo del pianeta. Non giudico voi meno colpevoli: il vostro odio dissimulato di pareri e la vostra ignoranza disinibita sono parte di quella catena. La vostra ostilità ai diritti, i vostri dubbi moralistici sono parte di quella catena. Le vostre manifestazioni apparentemente pacifiche e tolleranti sono parte di quella catena. Per questo io non riesco ad assolvervi. E vi condanno non solo per la vostra stupidità, ma per le vostre mani piene di sangue.

“Our lives are not our own. From womb to tomb, we are bound to others. Past and Present. And by each crime, and every kindness, we birth our future.” (da Cloud Atlas, scritto e diretto da Lana e Andy Wachowski)

di Sebastiano Luca Tata

Politeismo e inclusione

Mettiamo Antoine-Olivier Pilon, non lui in persona, ma alcune sue ipostasi filmiche, dal clip degli Indochine al film Mommy. Mettiamo di avere ascoltato pedagogisti sorridenti e pieni di risposte, di avere la mente piena di comportamenti inclusivi e vaghi racconti di docenze militanti, e magari mettiamo di aver conosciuto pure certe periferie per esserci nati. Di aver conosciuto il bullismo, il veleno del gruppo, l’aggressività dei 12 anni, il digiuno autoinflitto, la codardia, di aver disprezzato i ricchi e i bravi, e di esser stato bravo ed essersi disprezzati. Di essere stato vittima, di essere stato carnefice. Di avere avuto simpatie per gente libera e iperattiva, e noia per quei tipi tutti occhiali che pareva avessero tutto in un metro cubo di aria. Di aver avuto in odio quei tipi stupidi col solletico facile alle mani, e la lingua tagliente. Per quelli che picchiavano duro e falciavano dove era più facile.
Mettiamo un po’ di politeismo dei sentimenti. Di immedesimazione. Di vita vissuta. Mettiamo di non essere pedagogisti e di voler diventare insegnanti, o di esserlo nel modo spacciato del non essere monadi.
Dove sono le risposte?
La facilità con cui si agiscono comportamenti e si compilano manuali mi inorridisce. Sono pieno di dubbi e di inadeguatezze.
Pieno di dubbi e di inadeguatezze.
E più stirano la voce descrivendo il paradiso dei comportamenti, più vedo i fallimenti in traluce, e nel vederli spero che almeno il dubbio mi serva in futuro.
Politeismo. Perché non c’è un decalogo, o un index da tirar fuori all’occorrenza.
E poi ottimismo. Perché di questo forse ha bisogno un insegnante, parafrasando uno che insegnante è stato a lungo e non senza meriti: “una buona dose di utopia”.

di Sebastiano Luca Tata

Lizzie: la realtà frammentata

“Anche se il museo godeva di notevole fama in quanto sede di un sapere immenso, le sue fondamenta avevano cominciato a cedere”.
Poiché non sono un “lepidotterista della letteratura”, come direbbe King, non analizzerò l’ultimo romanzo di Shirley Jackson alla maniera dei professori delle accademie italiane. Non lo sezionerò e disporrò sul tavolo chirurgico come un organismo morto, perché “Lizzie” è viva, e basterebbe a dimostrarlo l’incipit citato.
La Jackson ha sempre avuto un tocco magico nel dare inizio alle sue storie, basti ricordare “L’incubo di Hill House” o “Abbiamo sempre vissuto nel castello”, e nelle prime pagine di questo romanzo, tradotto di recente da Adelphi, ma edito in America nel ’54, la scrittrice descrive con semplice ed elegante maestria il museo in cui lavora la sua protagonista, Elisabeth Richmond. Ci avverte che la struttura ha avuto un cedimento e che proprio accanto alla scrivania dell’anonima e discreta ragazza si è aperta una voragine. Nell’indifferenza generale dei custodi, dei colleghi e dei visitatori, Elisabeth continua a lavorare accanto alla voragine, apparentemente come se nulla fosse successo.
“Nessuno al museo aveva riflettuto, regolo in mano, chiedendosi: ecco, vediamo un po’, questo pozzo dentro al palazzo finirà col passare accanto al gomito sinistro di Miss Richmond. Chissà se la disturberà non trovare più una delle pareti dell’ufficio?”
Si potrebbe parlare di una esteriorizzazione dell’inconscio (era anche il caso di Hill House) che non può non mordere il cuore avvincendo alla pagina qualunque lettore. Da quel momento Elisabeth, Lizzie, non tornerà che poche volte al museo, perché da quel momento la povera ragazza si rompe. Proprio come accadrebbe ad un uno specchio caduto di mano, in Lizzie si infrange la misteriosa ed equilibrata anonimia con cui aveva passato la sua vita e nascono quattro nuove personalità che daranno filo da torcere ad un inetto medico di provincia e ad una zia volgare e forse un po’ troppo attaccata alla bottiglia.
La voragine era nella mente, le crepe del museo erano come le pennellate vorticose che emanano dall’Urlo di Munch e saturano il paesaggio dello stesso venefico male di vivere.
Ad essere frammentata, verrebbe da dire, non è solo la povera Lizzie, ma la società che la ospita, e che l’ha reclusa persino dalla comprensione della madre (anche nell’atto estremo della morte).
In effetti è proprio questo che ha reso Shirley Jackson il genio letterario che era: la sconvolgente certezza dell’inganno perpetrato dalla normalità. Un inganno che non si riduce alla coscienza umana, ma che pervade gli oggetti (l’inquietante statua all’ingresso della casa di zia Morgen), i paesaggi, e solo in ultimo le persone. Se la coscienza degli uomini è un malvagio labirinto, è forse perché labirintico è il mondo. Una trappola, dove superflua risulterebbe una morbosa introspezione e grottesca la deriva nel brivido. Il dottor Wright non comprende che l’unica guarigione possibile è lasciare che Lizzie rinomini il mondo (come farebbe uno scrittore, aggiungerei) assegnando a ciascuna cosa una verginea nuova identità.
E così anche l’autrice rinomina la sua realtà. Le pagine della Jackson scorrono semplici e raffinate, e per questo garantiscono il massimo dell’evocazione simbolica. Il tutto, è doveroso ricordarlo, una decina d’anni prima dell’uscita di Marnie, opera del maestro Alfred Hitchcock, uno dei “grandi film malati” (parola di Truffaut), sulla psiche di una giovane donna cleptomane.
In “Lizzie”, come nelle altre opere della Jackson, si ha quasi l’impressione che possa scatenarsi l’oblio immenso dell’orrore ad ogni istante; ma nulla ferisce l’equilibrio intatto della realtà, dove l’orrido è sempre sotto pelle, sempre presentito.
E la follia si fa questione di misura.

di Sebastiano Luca Tata

No al MUOS di Niscemi: la battaglia di tutti

Non lontano da Comiso, la Cruise Town di bufaliniana memoria, la storia, variando, si ripete: a Niscemi (CL), a pendere sulle sorti del territorio e della salute del popolo siciliano è il cosiddetto MUOS. La sigla sta per Mobile User Objective System, un sistema di antenne ad altissima frequenza, di proprietà e al servizio del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, destinato ad interconnettere tutti gli utenti mobili delle forze armate americane, dal militare singolo ai sottomarini: un mezzo, insomma, mirante ad attestare la superiorità militare statunitense.
I lavori per la installazione delle antenne hanno interessato un’area ricadente nella riserva naturale “Sughereta”, zona ospitante varie specie di mammiferi, rettili e uccelli, molte delle quali protette perché a rischio d’estinzione. Nel suo libro-inchiesta Un Eco MUOStro a Niscemi (Edizioni Sicilia Punto L, 2012, Catania), il giornalista A. Mazzeo, sulla scorta di rapporti scientifici afferma che: «Emissioni estremamente intense come quelle generate all’interno del fascio di microonde del MUOS sono in grado di ferire un uccello in volo a centinaia di metri dalla sorgente, e in alcuni casi forse anche ucciderlo». Senz’altro ci si domanda: quali ricadute avrà la presenza prossima del MUOS sulla salute nostra, dei nostri figli? Antonio Mazzeo ha rilevato le incongruenze, il pressappochismo dello Studio di Incidenza Ambientale della Marina USA, che non avrebbe affrontato con il dovuto scrupolo il problema degli effetti possibili che esposizioni a lungo termine ai campi elettromagnetici del MUOS possono sortire sulla salute delle popolazioni. Anche la Commissione Internazionale per la Sicurezza ElettroMagnetica (ICEMS) sostiene che «l’esposizione a specifici campi a bassa frequenza (ELF) può aumentare il rischio di cancro nei bambini ed indurre altri problemi di salute sia nei bambini che negli adulti».
A queste voci si uniscono quelle dei professori Massimo Zucchetti e Massimo Coraddu (Politecnico di Torino), che lo scorso 4 novembre 2011 hanno presentato un rapporto autonomo sul MUOS, rilevandone la nocività per la salute della popolazione.
Tutto ciò senza considerare ancora il pericolo continuo rappresentato, scrive Mazzeo, da «I rischi d’interferenza [che] investono potenzialmente tutto il traffico aereo della zona circostante il sito d’installazione del MUOS». Nel raggio di 70 Km si trovano infatti ben tre scali aerei: Comiso, Fontanarossa e Sigonella.
La coscienza di una realtà tanto grave ha spinto una moltitudine di persone ad ingaggiarsi personalmente nella lotta di resistenza a questo progetto: nonne, mamme, ragazzi, persone di ogni età e occupazione oppongono, spesso col proprio corpo, un pacifico scudo all’avanzamento di questo progetto di morte che, a dispetto della sospensione dei lavori decretata da Rosario Crocetta, procede regolarmente sotto la protezione, spesso violenta, delle forze armate italiane. Evidentemente il problema è grave, e ci riguarda tutti, poiché l’etere non conosce soluzione di continuità. Primo passo è informarci, attraverso tutti i mezzi a nostra disposizione (segnaliamo il sito http://www.nomuosniscemi.it). Vi invitiamo perciò a prendere parte, il prossimo martedì 11 giugno alle ore 20.00, all’incontro informativo sul MUOS, che si terrà presso il pub Mad in C.so Savoia, Rosolini. Alcuni attivisti No MUOS, insieme al giornalista A. Mazzeo, metteranno in comune la propria esperienza di militanza e indagine, aiutandoci a capire cosa è accaduto e accade a Niscemi, che ci riguarda tutti molto da vicino.

di Doroty Armenia

Bradbury: la fantasy è un umanismo

Il 5 Giugno di un anno fa moriva a Los Angeles Ray Bradbury. Uno dei più grandi poeti della letteratura mondiale.
Dico poeta non a caso; Huxley aveva visto bene. Lo sceneggiatore di Moby Dick, figlio di un elettricista della provincia americana era proprio questo: non per i pochi versi/gioco che aveva scritto nella sua carriera, ma per l’inesauribile vena di magia cui la sua penna attingeva di continuo.
Per Bradbury ho pianto due volte: il giorno in cui ricevetti da bambino Fahreneit 451 e il giorno della sua morte. Per il resto ho solo sognato, se sogno è parola appropriata per descrivere il “vola tappeto!” del più grande mago del mondo.
Già. La scrittura di Ray Bradbury somiglia proprio ad una magia, l’incanto creato dallo strumento parola retto a definire scenari irreali, fino in fondo, con la credibilità dell’incredibile.
Certo a Bradbury interessavano anche il “buco di tarlo”, le leggi gravitazionali, il rumore di fondo dell’Universo, i fossili di dinosauri, ma di ciascuna di esse scopriva il lato incantato, quello che allo scienziato era rimasto ignoto, più per pigrizia che per mancanza di intelligenza. A Bradbury interessava l’infinita declinazione poetica di un presupposto scientifico. La sua fantasy (nell’horror, come nel fantascientifico) era umana, ammesso che ne esistano di altro genere. E in quanto umana parlava sempre degli uomini. Ricordava, forse persino agli scienziati e ai tecnici di ogni disciplina, che il fine non è mai l’oggetto in sé, ma l’autore dell’oggetto.
Bradbury era anche uno scrittore molto simile a Poe. E forse (opinione personalissima) il suo unico vero erede. Dell’autore de La caduta della casa Usher aveva la stessa incapacità a “durare”. Le sue storie dovevano trovare il culmine percorrendo una strada travagliata, tenuta insieme da un labile gioco di parole, da una atmosfera lugubre, da una immagine appena plausibile. S. King, suo lettore e ammiratore, ha scritto che, come Theodore Dreiser, Bradbury ha la stessa tendenza “non tanto a scrivere di un argomento, ma piuttosto a piantarlo a forza nel terreno … e una volta piantato a colpirlo finché non è cessato ogni movimento”. C’è certo qualche accento critico in una simile affermazione. Ma c’è anche di più; c’è proprio quella che nell’Ottocento fu definita dal maestro della letteratura nordamericana “unità d’effetto”.
Quest’ultima era più importante del fiume monotono del romanzo. E anche quando si cimentò nel genere, Bradbury, come il maestro Poe, lo fece dilatando unità. Perché l’unica vera storia di Bradbury era la pagina magica, a volte persino ampollosa, che non aveva tempo e quindi non poteva essere ricondotta ai tempi regolari del romanzo. Delle innumerevoli antologie Cronache marziane è l’esito più felice di questa anoressia della trama. E penso che nessuno possa negare che questo libro non-libro sia una pietra miliare del genere (quale genere? Beh, lasciamo perdere …). In esso non c’è storia. Anzi c’è tutta la storia, perché ci sono le storie. Il “Gente di Dubino” della fantascienza ha cambiato per sempre il volto della fantasy e nessun autore potrà non considerarne l’esistenza. Nessuno critico potrà mettere in dubbio che anche di Marte poteva essere fatta letteratura. E che se oggi non si riesce a fare letteratura con i vampiri (come un tempo) non è colpa dei vampiri ma solo degli scrittori.

di Sebastiano Luca Tata

Il lezzo pratico dell’Accademia

Tra le tante scelte fatte dagli uomini la peggiore è l’autoconvincimento.
Eppure ci sono poeti (almeno uno), ci sono narratori (almeno uno), ci sono registi (almeno uno) … ci sono, ci sono stati. E sono sempre lontani dall’insegna luminosa che sbatte in faccia al prossimo la dichiarazione di autenticità.
Un tempo, con scetticismo certo, e romanticismo certo, credevo, passeggiando per un ex-monastero prestato a facoltà di lettere, che qualcuno, anche solo per osmosi con le pietre, smettesse di essere se stesso. Finisse con l’essere un intellettuale. Intus legere. Ma non ce ne sono. Nemmeno a cacciarti a forza buona fede in petto ne trovi.
Tutti impastoiati nel pratico. Tutti compromessi. Tutti irrimediabilmente attivi artefici del loro degrado.
Nessuno escluso.
Eppure l’insegna batte dove il dente duole. Un neon orribile. Volgare. Borioso. Lettere. Professori.
Dichiarazione di autenticità. Autoconvincimento.
E lo dicono e dichiarano ovunque. Pure nei libri non libri. Raccolte di “pensierini” che vendono a peso d’oro. Opinione colata dal vertice della intellighenzia. Scolo. Come quello di sugo e saliva appena all’angolo della bocca.
Un tovagliolo per pulire non basta. La sozzura è un costume. L’autoconvincimento pure. Di essere liberi. Di essere diversi. Di essere intellettuali (intus legere!). Insofferenti, si dicono, all’accademia. Si dicono: lo dicono a se stessi. Lo ripetono con la dedizione della menzogna. Con l’insolenza della posizione.
Il compromesso. Almeno uno senza compromessi, extra omnia. Per intus legere. Ma si chiamava Pier Paolo e da vivo nessuno lo amava.
Oggi fanno la gara a metterselo in bocca. Citarlo che è come divorarlo. Un pompino estenuante di sciocchezze. Sugo e saliva.
Non che i fervori più elevati non possano convivere con vite ordinarie. La vita ordinaria è rivoluzionaria. La vita ordinaria è una conquista. Da pacificare nel cuore. Ma nessuna tormentata rivelazione, nessuna pensosa conflittualità, nessuno interrogativo tragico o brillante si associa al compromesso, alla stanza del potere, alla maschera prismatica della politica.
Io non vedo intellettuali. Vedo solo politici. Proprio là dove sbatte il neon. Alcuni lo leggono e ne sono rassicurati. E non badano allo scolo. Ma lo scolo c’è. E puzza.
Il rivolo contaminatorio delle scelte.
Se la cultura odierna è irresoluta (come cosiddetta “letteratura”, fabbricata all’ombra del palazzo) è solo colpa di quel neon. Dell’ombra che stende su tutti gli altri. Scientemente. Come un vizio.
E l’odore schifoso della spazzatura, in cattedra.

di Sebastiano Luca Tata

Elsa Morante. Una presentazione a Catania

Quella che segue è la mia personale e discutibile cronaca della presentazione, svoltasi venerdì scorso a Catania, nel Refettorio Piccolo della Biblioteca Civica Ursino e Recupero, del volume La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura: interventi di Goffredo Fofi, Antonio Di Grado e dell’autrice, Graziella Bernabò, coordinati da Massimo Maugeri. Noterete lacune e impennate sentimentalistiche, e di questo mi scuso (ma fino a un certo punto).

La tavola rotonda sul libro della Bernabò, uscito nel 2012, è stata soprattutto pretesto e occasione più che unica per parlare (e parlarne a Catania) di Elsa Morante, scrittrice ingiustamente sottovalutata e ingabbiata in categorie critiche che troppo facilmente l’hanno liquidata, fino quasi a farcene dimenticare. Fino a ora. Fino a che la Bernabò non ha cominciato a lavorare al suo libro su Elsa. Per rimettere le cose a posto, anche, e per combattere e stravolgere quella critica miope e mortificante.

A partire dal titolo scelto per il suo libro, che rispecchia una direzione metodologica chiara e fino a ora inesplorata dalla critica: ovvero la necessità di analizzare a un tempo l’opera e la vita di Elsa Morante, perché indissolubilmente legate e intrecciate. A dimostrazione che, come si coglie dai documenti lasciati dalla stessa scrittrice, la scrittura era per lei una questione di vita e la questione della vita.

Ed è proprio un fatto privato a determinare in lei un cambiamento di poetica nella metà degli anni Sessanta  ‒ la morte di Bill Morrow, giovane americano a cui la Morante era legata sentimentalmente ‒ e a determinare la sua personale discesa agli inferi, da cui Elsa riemerge, dopo, con uno spirito ferito ma rinnovato nell’intento di assumere su di sé il dolore di tutti, le sorti di tutti. Risale a questo periodo la stesura de Il mondo salvato dai ragazzini, e anche l’incontro con l’opera di Simone Weil, che diventerà per lei una ideale compagna di viaggio, e nella cui scrittura Elsa troverà conferma di molte sue idee.

Questo cambiamento di poetica, cui non corrisponde un cambiamento nella scrittura – sempre pervicacemente volta allo smascheramento della realtà e sempre attenta alla corporalità dei personaggi ‒ porta alla stesura della sua opera più conosciuta, La Storia, nella quale essa dispiega il suo sguardo di donna sul mondo, e nella quale si declina ancora una volta un tema che attraversa tutta l’opera della Morante: il rapporto tra madre e figlio.

All’intervento della Bernabò sono seguiti quelli mirabili e importantissimi di Goffredo Fofi e Antonio Di Grado, di cui (ricordate le lacune?) non parlerò. Quello che mi preme dire è che la letteratura è una disciplina meravigliosa che permette di creare collegamenti e rapporti fuori dallo spazio e dal tempo. Senza pretendere di essere compresa, e senza pensare di esserne degna, per motivi che non riguardano la mia volontà, questo mi è successo con Elsa Morante. Così, quando venerdì sono andata alla presentazione, ero nello stesso tempo impaziente e spaventata. Impaziente perché finalmente sarei andata a sentir parlare di Lei, e spaventata perché temevo eccessi di accademismo e retorica becera e stantia come la pelliccia della signora che mi sedeva davanti (sul perché a Catania alle presentazioni ci siano solo persone anziane con pelliccia e collana di perle rifletterò domani). E invece le ore passavano e non me ne accorgevo neppure perché a parlare c’era una studiosa che aveva davvero a cuore Elsa Morante e il suo posto nella letteratura; e poi anche un importantissimo critico come Goffredo Fofi, che prima di tutto era amico della Morante, e Antonio Di Grado che, da subito dichiaratosi lettore e amante della nostra Elsa, ha precisato che giammai si sarebbe cimentato in questa o in altre sedi in una analisi fredda e chirurgica della sua opera, alla faccia della critica accademica.

Insomma a dispetto delle previsioni più pessimistiche (vedi alla voce: pelliccia), sono tornata a casa contenta, come se la memoria e l’opera di Elsa Morante fossero state degnamente onorate.

 

di Giuditta Busà

Diverso è lo scrivere. Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo

« … È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria,[…] è sempre un’operazione vecchia, arretrata, regressiva. Diverso è lo scrivere […] E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta.[…] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora».
Così scriveva Vincenzo Consolo nel 1983 (Un giorno come gli altri), dando una precisa dichiarazione della propria poetica, che è insieme anche etica, e pone al centro del lavoro dello scrittore un impegno sempre ricominciato, non disposto a compromessi e consapevolmente agli antipodi dell’attuale produzione in serie e dei facili consensi di pubblico.
Il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, nella persona del Prof. Antonio Di Grado, ha voluto offrire un tributo allo scrittore siciliano riunendo alcuni tra i maggiori studiosi della sua opera, che il prossimo mercoledì venti marzo 2013, presso il Coro di notte del monastero dei Benedettini, commemoreranno lo scrittore scomparso lo scorso gennaio 2012, in una giornata di studi centrati sull’opera consoliana.
Scrittore “palincestuoso”, com’è stato definito, Vincenzo Consolo ha lasciato un’opera che è una sorta di “libro continuo” i cui testi, rimandando ad altri testi, non smettono di farsi eco tra loro, variando vesti e metaforiche allusioni.
Tra le opere dello scrittore di Sant’Agata di Militello, si includono romanzi, spesso a sfondo storico-metaforico (La ferita dell’aprile, 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976; Retablo, 1987; Nottetempo, casa per casa, 1992; Lo Spasimo di Palermo, 1998); testi ibridi tra la velata scrittura memorialistica e la digressione riflessiva (Le pietre di Pantalica, 1989; L’olivo e l’olivastro, 1994); pièces teatrali (Lunaria, 1985; Catarsi, 1989).
Lo sfondo delle narrazioni è una Sicilia dolente che, come si legge nell’ultimo romanzo di Consolo, “esala odore di sangue e gelsomino”: terra che rappresenta essa stessa una profonda metafora, in cui s’incrociano i punti oscuri e luminosi del passato e del presente, articolando “la storia di una continua sconfitta della ragione” (L. Sciascia).
Tesa al limite dell’afasia, si leva, argine contro tale minaccia, la “scrittura disobbediente” (M. Attanasio) di Vincenzo Consolo, volta alla ricomposizione, come in uno scavo archeologico, dei frammenti altrimenti dispersi delle civiltà dell’uomo, attraverso la costruzione artigianale e paziente di un linguaggio: vero protagonista dell’opera consoliana, esso nasce dal suggestivo impasto tra “la tradizione colta e quella popolare, lingua e dialetto, adesione lirica e lucidità razionale” (S. Trovato, 1994). In questa intricata, mirabile selva, gli studiosi presenti aiuteranno il pubblico ad entrare.
L’incontro si articolerà in una sessione mattutina, che avrà inizio alle ore 9.30, e in una seconda sessione che inizierà alle ore 16.00: moderati dai professori Antonio Di Grado e Miguel Ángel Cuevas, gli studiosi invitati guideranno il pubblico attraverso l’opera consoliana, tra i casi di riscrittura che vi si rintracciano (Salvatore Silvano Nigro, IULM di Milano); le relazioni tra pittura e scrittura (Miguel Ángel Cuevas, Siviglia); gli esercizî di cronaca e di stile (Rosalba Galvagno, Catania); la particolare lingua de Il Sorriso dell’ignoto marinaio (Salvatore Trovato, Catania); e ancora, la vicenda compositiva del libro postumo La mia isola è Las Vegas (Nicolò Messina, Valencia), e un’analisi di narrazione e scrittura in Vincenzo Consolo (Dario Stazzone, Catania). Parteciperà altresì il direttore del Teatro Stabile di Catania Giuseppe Dipasquale, che parlerà della versione teatrale di Retablo (cortile Platamone nel 2001), per la regia di Daniela Ardini, con una eccezionale Mariella Lo Giudice nel ruolo di Rosalia.
Il pubblico assisterà alla proiezione di alcuni brani dello spettacolo, e potrà ascoltare, nel corso del convegno, letture tratte da diversi luoghi dell’opera consoliana.
Scrive Giulio Ferroni che «la prospettiva etica di Consolo è radicata nella scoperta del valore della cultura umana […] come proiezione in un altrove di se stessi e del presente, fondata nella ricerca di verità e bellezza che l’umanità ha condotto nel corso della sua lunga storia, e di cui si osservano le tracce infinite nei luoghi, le pietre, il paesaggio[…] che per Consolo sono quelli di una regione catatterizzata da una storia e una natura tutte particolari: la Sicilia, dove storia e natura sono cariche di una violenza, d’una passione, una speranza senza pari».
“Diverso è lo scrivere” di Vincenzo Consolo, poiché viaggio ininterrotto, attraverso l’impegno della scrittura, in «questa terribile, maravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo ha sempre declinato in mito […] per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora». Diverso è lo scrivere consoliano – e il pubblico presente il prossimo mercoledì 20 marzo presso il Coro di notte avrà modo di apprezzarlo – poiché esperienza eccezionale che ardisce la ricerca, si fa vera espressione, creazione di una voce: poetica di un’etica.

di Doroty Armenia

Gli accademici e quello strano vizietto

Che l’uomo sia in cerca di certezze è fatto vecchio come il mondo: qualcuno le cerca in un altrove metafisico; altri le cerca nella propria interiorità; chi, nel dire comune, la individua nell’unico esito possibile e prevedibile del cammino umano, la morte: ma è questa una certezza? Alcune religioni, infatti, negano perfino l’esistenza di un tale evento. E allora su quali fondamenti possiamo fondare la nostra conoscenza? Sul fatto che l’unica certezza è che non vi siano certezze?

Beh, in realtà non era mia intenzione avviare una prolusione filosofica di carattere nichilista, non sarei abbastanza preparato e non volevo arrivare così in alto.
 

La mia riflessione nasce da una constatazione fatta qualche tempo fa. Mi trovavo ad ascoltare una lezione di archeologia, tenuta da un professore universitario che credo possa considerarsi uno studioso di tutto rispetto. La lezione mi sembrava interessante, seguivo con attenzione il percorso al quale mi si invitava, scandivo nella mente i vari passaggi che conducevano poi a logiche deduzioni e… Logiche. Già Aristotele qualche anno fa ci metteva in guardia dall’errore in cui la logica ci può trarre, se le premesse del nostro ragionamento siano false. Ciò che è logico non sempre è vero o altrimenti ci potremmo trovare a dover ammettere che esistono asini che volano… Ma forse sto andando di nuovo lontano.
 

Ritorniamo alla lezione e alla sua conclusione, ovvero alla parte di quel ragionamento che alle mie orecchie ha cominciato a suonare come le corde di un violino scordato. Si diceva in quel discorso in tono assertivo “e questa datazione è certa perché gli scavi sono stati fatti stratigraficamente”. Quello che non mi suonava bene non era certo il fatto che gli scavi fossero eseguiti secondo il metodo stratigrafico. Non vorrei mai mettere in dubbio l’utilità di un metodo di indagine che ha consentito, insieme ad altri, di sottrarre la ricerca archeologica ad interpretazioni spesso arbitrarie e che permette, interrogando il dato materiale, di ricostruire le fasi di vita e di abbandono di un sito in maniera più attendibile e “scientifica”, rispetto a quanto avveniva in tempi passati, senza il pregiudizio dettato dalle fonti storiche (si ricordi che le più moderne tecniche di indagine sono state elaborate per venire incontro agli studiosi di preistoria, i quali operavano necessariamente privi di qualsiasi pregiudizio, non avendo notizie storiche cui affidarsi).
 

Quello che più invece colpiva era il concetto di certezza, ovvero la fiducia quasi cieca nei dati ricavati attraverso il metodo applicato. Se è vero, infatti, che il metodo stratigrafico permette, laddove le deposizioni si susseguono in maniera lineare (e non sempre è così e non sempre è così facile riconoscerne le sequenze –benché non tutti lo ammettano-), di distinguere diverse fasi cronologiche quello che ne viene fuori è una sequenza relativa: cioè sappiamo che una cosa viene prima e un’altra viene dopo. La datazione è data dall’associazione con materiali datati e databili: ma qual è il grado di certezza di queste datazioni? Spesso sono oscillanti, e si fa riferimento a datazioni già consolidate. Se queste non sono contraddette dalla sequenza stratigrafica, si finisce allora per datare lo strato affidandosi alla cronologia dei materiali in esso presenti: il procedimento è logico. Ma a parlare di certezze si rischia di fare il passo più lungo della gamba. Vorrei ricordare l’errore in cui si era caduti in Sicilia quando si attribuirono le monete dionigiane a Timoleonte con la necessaria riscrittura della storia di alcuni siti; o come le discussioni, non ancora chiuse, sulle date di fondazione delle colonie, portino a riconsiderare le datazioni di alcune classi ceramiche, e viceversa.
 

Ovviamente gli studiosi più accorti colgono margini e possibilità d’errore, ed è grazie a continue revisioni, correzioni e correttivi che il metodo si affina.

Tuttavia, nel passaggio da una fisica del dato a una sua metafisica, si rivela spesso quel vizietto tipicamente accademico di pensare o far pensare il proprio metodo (e tutto ciò che se ne ricava) come unico e assoluto, nonostante la connaturata impossibilità della controprova. Se è vero che neppure le cosiddette scienze esatte sono perfette (sul fatto per molti assodato che 1 x 0 = 0 molti matematici, per esempio, potrebbero illustrarci quante insidie nasconda questa banale formula aritmetica), bisognerebbe sempre tener presente che i metodi di ricerca e gli strumenti utilizzati sono i migliori possibili hic et nunc e tra vent’anni potrebbero essere derisi come ingenui e approssimativi (se non addirittura errati).

La scienza procede per errori e all’accademico vizioso che vende certezze preferisco, dunque, il docente che istilla il dubbio (anche su di sé) e insegna a porre domande. Le parole hanno peso e significato. E a margine di ogni certezza si nasconde l’inganno della parola.
 

di Rossano Scicolone